Sono arrivata adesso. Proprio poco fa, giusto il tempo di capire che le porte vanno sempre tenute chiuse, che ognuno ha un mazzo di chiavi spaiate, che le 18 è l'orario delle docce, che il lunedì c'è la riunione d'equipe. Ancora non conosco tutti gli operatori e con qualcuno ci presentiamo già con la mascherina sulla faccia. Per non parlare dei ragazzi: gusti, temperamenti, ritualità, crisi, regole. Capisco che ci sono delle regole ben precise, una struttura solida, un linguaggio che accomuna tutti, gli operatori si muovono in modo coordinato ed efficace. Io osservo, chiedo, mi adatto, imparo, prendo corpo. Adesso, tutti gli schemi sono saltati, non c'è più la scuola, non ci sono più attività pomeridiane, non ci sono più uscite e passeggiate, non ci sono più i rientri a casa. Il tempo, prima scandito da un programma preciso che rassicurava e conteneva, ora è diventato un unico grande “adesso” in cui igiene, pasti e riposo, sono i pochi punti fermi ai quali appigliarsi. Un ritorno al necessario, ai bisogni primari di sopravvivenza. I primi giorni del covid è stato difficile: la paura del contagio, la mascherina, i guanti, mantenere le distanze... la cosa più difficile, se non impossibile, mantenere le distanze. Quanto ci si possa abituare a restare ad un metro di distanza ed a relazionarsi con un “orpello” bianco che ti nasconde gran parte del viso, è difficile immaginarselo. I ragazzi si destabilizzano, chi più chi meno, per i nostri umori a volte nervosi, per le mascherine, soprattutto per il tempo che gli viene tolto con le famiglie e a scuola. L., ormai quasi tutti i giorni, prepara la sua borsa e aspetta davanti alla porta di casa che arrivi la macchina che la riporti dai nonni e quando capisce che neanche oggi li potrà vedere, si agita molto, a volte fino alla crisi.
A. si fa lavare i capelli, pur non amando questa operazione, perché sa che prima di andare a casa ci si fa la doccia completa e spera che quella sia la volta buona, tanto la borsa lei l'ha sempre pronta.
G. continua a ripetere di voler andare a casa da mamma e papà, anche L. spesso agitato, lo ripete con insistenza.
J. si chiede quando finirà il coronavirus perché non vede l'ora di poter tornare a scuola e salutare i suoi compagni di classe.
E poi c'è D.H. che, annoiato dall'assenza di attività, chiede in continuazione di sentire la musica dai cellulari degli operatori che, ogni tanto, gli concedono un fuori programma musicale.
E fuori programma sono anche le attività che nascono spontanee: il calcio in giardino, il laboratorio di disegno, il laboratorio di musica e quello di lettura. Piccole improvvisazioni, proposte libere di operatori e ragazzi per definire e autodeterminare il proprio tempo e far passare le giornate come in una lunga vacanza casalinga.
Eppure c'è la sensazione che questo momento “sospeso” possa aprire a nuovi modi di essere in relazione con i ragazzi, che possa essere un momento di riflessione e osservazione in cui il rallentare e il non “dover occupare il tempo” possa lasciar fiorire nei ragazzi risorse di rideterminazione di tempo e spazio, secondo un modello individuale guidato, ma non imposto, dall'esterno.
Marina Consoli
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